I PROBLEMI DELLA DONAZIONE
Provvisorietà della donazione
La presenza di ampie franchigie (cioè esenzioni) dall’imposta di donazione, per i parenti più stretti, rende la donazione, in certi casi, più conveniente rispetto alla vendita. Bisogna però fare molta attenzione. La differenza tra la vendita e la donazione non è solo una questione di forma, e le conseguenze dei due tipi di atti sono molto diverse.
Nel caso della vendita, infatti, il pagamento del prezzo rende il trasferimento definitivo e inoppugnabile, fatti salvi alcuni casi particolari.
La donazione, invece, è caratterizzata dallo spirito di liberalità, e ciò significa che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe essere utilizzata solo per fare un regalo a qualcuno. Chi riceve un regalo non può certo avere delle pretese, deve solo essere contento di avere ricevuto qualcosa senza dare niente in cambio. Ecco perché la donazione non comporta un acquisto definitivo della proprietà.
La revocazione della donazione
Anzitutto la donazione può essere revocata dal donante per ingratitudine, oppure in caso di sopravvenienza di figli. La prima ipotesi è piuttosto rara, dato che è ammessa solo quando il donatario si è reso colpevole, verso il donante, di calunnia, di ingiuria grave o di un grave danno al suo patrimonio, gli ha rifiutato gli alimenti o addirittura ha ucciso o tentato di uccidere il donante oppure un suo ascendente o discendente. L’ipotesi della sopravvenienza di figli è invece più concreta, perché per sopravvenienza non si intende solo la nascita di altri figli del donante, ma anche la presenza di figli concepiti prima della donazione, di cui il donante non era a conoscenza, e riconosciuti nei due anni successivi. Grazie al progresso tecnico e scientifico, l’accertamento della paternità è oggi molto più facile, dunque la sopravvenienza di figli è una possibilità di cui non si può fare a meno di tenere conto. Inoltre, la Corte Costituzionale ha stabilito che la revocazione della donazione deve essere consentita anche in caso di sopravvenienza di un figlio naturale, senza limiti di tempo (sentenza n. 250 del 3 luglio 2000).
L’azione di riduzione per lesione di legittima
Ma soprattutto la donazione, proprio per l’assenza di un corrispettivo, è sempre considerata come “provvisoria” dal nostro ordinamento, in previsione della futura successione.
Gli eredi che dovessero risultare danneggiati dalla generosità del defunto potranno impugnare la donazione entro dieci anni dalla morte. Il nostro ordinamento giuridico, infatti, prevede che in seguito alla morte di una persona, al coniuge e ai figli del defunto sia in ogni caso riservata una certa quota del suo patrimonio, indipendentemente dalla sua volontà e anche contro la sua volontà. In mancanza di figli, una quota è riservata anche ai genitori del defunto, se sono ancora in vita. Esistono dunque alcuni soggetti, chiamati legittimari o eredi necessari, a cui la legge vuole che vada almeno una parte dell’eredità. Per questo motivo, in presenza di eredi necessari, molti ritengono superfluo fare testamento, quando non hanno esigenze particolari da soddisfare.
Ma cosa succede se il defunto si è spogliato in tutto o in parte dei suoi beni prima della morte? Se ciò è avvenuto con la vendita dei beni, la legge non se ne preoccupa, perché nel patrimonio del defunto sono usciti dei beni ma è entrato del denaro, che teoricamente dovrebbe essere stato impiegato nell’acquisto di qualcos’altro, oppure essere ancora presente al momento della successione. Resta salva, naturalmente, la possibilità di dimostrare che la vendita dissimulava una donazione, perché il prezzo non era stato pagato.
Se invece il defunto ha disposto in vita dei propri beni mediante donazione, la legge predispone alcuni strumenti di tutela per gli eredi necessari, che esercitando l’azione di riduzione possono riacquistare la proprietà dei beni donati dal defunto, anche quando nel frattempo sono stati rivenduti a qualcun’altro.
Chi riceve la donazione può correre questo rischio. Al massimo dovrà restituire una cosa che non ha pagato, quindi non subirà alcun danno. Il problema sorge quando il donatario vuole rivendere l’immobile ricevuto in donazione, oppure chiedere un mutuo garantito da ipoteca. La legge, infatti, prevede che anche i successivi acquirenti siano pregiudicati dall’eventuale riduzione della donazione, e naturalmente chi paga per acquistare un immobile non è disposto a correre rischi. Lo stesso vale per la banca che concede il mutuo, perché in seguito all’esercizio dell’azione di riduzione gli immobili sono restituiti liberi da ipoteche. L’immobile che è stato oggetto di donazione è dunque di fatto incommerciabile fino a dieci anni dopo la morte del donante.
Dopo la morte del donante gli eredi possono rinunciare all’azione di riduzione, quindi se sono tutti d’accordo il problema è risolto. Fino a che il donante è in vita, invece, la legge non ammette questa rinuncia. Se anche gli eredi dovessero sottoscrivere una dichiarazione in tal senso sarebbe considerata nulla, e quindi priva di valore.
Una soluzione spesso utilizzata nella pratica è quella di risolvere la donazione, ritrasferendo l’immobile al donante che potrebbe poi venderlo o ipotecarlo.
Recentemente l’Agenzia delle entrate ha riconosciuto che alla risoluzione delle donazione, quando avviene senza corrispettivo, si applicano le imposte di registro, ipotecarie e catastali nella misura fissa di 200 euro ciascuna, anziché in misura proporzionale, come avveniva in precedenza (risoluzione n. 20/E del 14 febbraio 2014). Ciò rende sicuramente più agevole questa soluzione.
Se invece per la risoluzione dell’atto di donazione fosse previsto il pagamento di un corrispettivo, si applicherebbe invece l’imposta di registro proporzionale (art. 28, secondo comma, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131).
Si è anche ipotizzato di chiedere al donante di garantire con una fideiussione i danni che potrebbe subire l’acquirente per l’esercizio dell’azione di riduzione. Dopo la morte la garanzia si trasferirebbe sugli eredi, che così non avrebbero interesse a impugnare la donazione. Questa soluzione, però, non è esente da dubbi. Ecco perché la donazione non dovrebbe mai essere utilizzata in modo disinvolto al di fuori del suo campo specifico di applicazione.
I terzi acquirenti tutelati dopo vent’anni
Da tempo si parla di modificare la legge, anche perché in tutti gli altri Stati europei il problema è già stato risolto, in un modo o nell’altro. Recentemente il legislatore ha fatto un passo avanti, e in linea di principio si tratta di una scelta epocale, che ha fatto molto discutere. Sul piano pratico, però, le nuove regole non risolvono molti problemi. La legge infatti ha introdotto soltanto un limite di vent’anni dalla donazione, trascorso il quale sono definitivamente fatti salvi i diritti dei terzi acquirenti dei beni oggetto di donazione, e restano ferme le ipoteche iscritte sugli stessi (art. 2 del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni dalla legge 14 maggio 2005, n. 80).
Rimane dunque la possibilità di impugnare la donazione, e rimane il divieto dei patti successori, che vietano la rinuncia preventiva all’impugnazione, ma i terzi che acquistano l’immobile o iscrivono l’ipoteca possono stare tranquilli quando sono passati vent’anni dalla donazione. Dopo vent’anni, infatti, gli eredi legittimi possono rivolgersi solo a chi aveva ricevuto la donazione, che deve a risarcirli in denaro. Certo, è meglio che niente. Un termine slegato dalla morte del donante, per quanto lungo, è senz’altro un passo in avanti. Ma vent’anni sono davvero tanti, e tutti sappiamo che i problemi si presentano di solito con donazioni molto più recenti.
I vent’anni, inoltre, possono essere prorogati con un atto di opposizione alla donazione da parte del coniuge o dei parenti in linea retta del donante, che in questo modo si riservano di agire contro tutti i successivi acquirenti dei beni donati anche dopo il ventennio. Questo atto di opposizione deve essere notificato al donante e trascritto nei registri immobiliari, e deve essere rinnovato ogni vent’anni. Gli aventi diritto possono rinunciare all’opposizione, ma attenzione, perché questa rinuncia impedisce di prolungare il termine oltre i vent’anni, ma non può mai consentire di ridurlo al di sotto di tale durata minima.
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