DIRITTO DI ABITAZIONE: OBBLIGA L’HABITATOR A NON MODIFICARE LA DESTINAZIONE DEL BENE – CASS. 27 GIUGNO 2014, N. 14687
Relativamente al diritto di abitazione, la limitazione indicata nell’art. 1022 cod. civ. per la quale l’habitator ha diritto di abitare la casa “limitatamente” ai bisogni suoi e della sua famiglia, non deve essere interpretata in senso quantitativo (ove sarebbe richiesta la difficile determinazione dei bisogni del beneficiario del diritto), bensì riguarda il divieto di utilizzare la casa gravata dal diritto reale minore in modo diverso rispetto alla destinazione abitativa (volta a far fronte alle necessità dell’habitator e della sua famiglia).
Il caso concreto ha riguardato una successione mortis causa apertasi il 27 aprile 1956 e regolata da un testamento olografo redatto il 20 febbraio 1950.
Il de cuius era il padre di quattro figli (una femmina e tre maschi) e, in vita, aveva disposto delle proprie sostanze nominando eredi universali i tre figli maschi “congiuntamente e con diritto eguale tra loro” e, relativamente alla figlia femmina, stabilendo che “A mia figlia L. voglio sia data soltanto la quota che le potrà spettare per legge. Inoltre dispongo che essa mia figlia L. fino a che resterà nubile avrà sui miei beni ereditari un diritto di usufrutto di valore pari a quello dei miei eredi universali, e avrà anche il diritto di abitazione gratuito nella mia casa paterna sita in (omissis)”.
Il testatore aveva quindi confezionato la scheda testamentaria “preferendo” i figli maschi con una decisione comprensibile nel contesto e secondo la mentalità dell’epoca cui si riferisce il testamento. Il de cuius, tuttavia, aveva rimediato allo “svantaggio” che la figlia femmina avrebbe conseguito dalla successione paterna (rispetto ai fratelli), lasciandole un diritto di usufrutto (di valore pari a quello assegnato ai fratelli) e “anche” il diritto di abitazione sulla casa paterna.
In ragione di quest’ultima disposizione, il godimento sull’immobile [casa paterna] da parte dei fratelli, doveva essere ricondotto a mere ragioni di ospitalità.
Sorta una controversia tra i fratelli e la sorella, in merito alla delimitazione del perimetro del diritto di abitazione assegnato alla figlia femmina, viene considerato il tenore dell’art. 1022 c.c. secondo il quale “[c]hi ha diritto di abitazione di una casa può abitarla limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia”.
Per la Corte di Cassazione, l’inciso “limitatamente” deve essere inteso nel senso che è fatto divieto di modificare la destinazione d’uso del bene abitativo, con divieto di utilizzazione per altra utilità, e non, invece, come limite all’uso dei locali ricompresi nell’unità immobiliare, come sostenuto dai fratelli, i quali avevano ritenuto che la limitazione fosse riferibile ai dodici vani di cui era formata la casa paterna, posta su tre piani.
Secondo la Corte di Cassazione, «la limitazione dell’abitazione da parte del titolare di tale diritto “ai
bisogni suoi e della sua famiglia”, lungi dal poter essere intesa in senso quantitativo (opzione che,
oltretutto, porrebbe ardui problemi nella determinazione concreta in senso spaziale della parte della casa oggetto del diritto di abitazione necessaria al soddisfacimento delle esigenze abitative dell’- habitator), interpretata anche alla luce delle altre disposizioni sopra richiamate, fa riferimento esclusivamente al divieto di destinare la casa oggetto del diritto in esame ad utilizzazioni diverse da quelle consistenti nell’abitazione diretta da parte dell’habitator e dei suoi familiari; una tale interpretazione, del resto, è suffragata anche dal rilievo, già espresso da questa stessa Corte, secondo cui il diritto di abitazione previsto dall’art. 1022 cod. civ. si estende sia a tutto ciò che concorre ad integrare la casa che ne è oggetto, sotto forma di accessorio o pertinenza (balconi, verande, giardino, rimessa, ecc.), giacché l’abitazione non è costituita soltanto dai vani abitabili, ma anche da tutto quanto ne rappresenta la parte accessoria, sia, in virtù del combinato disposto degli artt. 983 e 1026 cod. civ., alle accessioni (Cass. 17 aprile 1981 n. 2335)».
In base a tali principi è stato rigettato il ricorso proposto dai fratelli.